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Il 2021 è l’anno di Dante Alighieri, proposto dal Ministero della Cultura, per celebrare il settecentesimo anniversario della morte del Sommo Poeta.

Nominiamo Dante e pensiamo alla Divina Commedia.

Tutti ne conosciamo l’incipit, abbiamo letto alcuni versi, ascoltato persone parlarne, riconosciuto citazioni, passaggi, interpretazioni…

Di fatto, abbiamo “subìto” una interpretazione pressoché letterale di questa opera, con qualche breve dissertazione filosofica e alcuni accenni esoterici, ma sempre ben calibrati dal professore di turno per non scostarsi dalle indicazioni imposte a priori nelle linee guida sullo studio.

Abbiamo già provato a “rileggere” in chiave misterica l’Odissea, proviamo ora, grazie al contributo dell’ing. Stefani, a portare una luce nuova e completamente differente su quanto Dante ha riversato nei suoi versi.

Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate.

Dante, Inferno, Canto III
Rileggere la Divina Commedia

Non intendiamo analizzare qui l’intero poema, sarebbe un’impresa ben lunga e gravosa!

Ripercorriamo insieme alcuni passaggi dell’opera, al fine di riportare alcuni spunti significativi.
Vedrai che qualcosa si risveglia in te, istruzioni sopite che ti permetteranno di interpretare in privato e in maniera sottile tutta la Divina Commedia.

Per prima cosa, ricordiamo il periodo in cui quest’opera è stata composta: se vogliamo interpretare un testo scritto tra il XIII e il XIV secolo dobbiamo immergerci con lo Spirito in quel periodo.

Solo così potremo percepire cosa fluttuava nell’etere in quell’epoca.
Ricorda: questo vale per ogni analisi che desideriamo fare e per ogni epoca terrena.

Teniamo, quindi, presente che la teoria allora in auge aveva posto la Terra al centro dell’universo, e si credeva che nell’emisfero opposto della Terra la forza di gravità agisse in maniera contraria al primo.

Un’opera iniziatica

La Divina Commedia rappresenta la visione di un iniziato, Dante appunto, cristiano cattolico; una realtà percepita nel mondo spirituale.

“Nel mezzo del cammin di nostra vita”

L’incipit del poema è considerato un elemento temporale, che ci indica l’età del protagonista. Si parla quindi di un’età fisica sui 30 o 40 anni, poiché si interpreta “mezzo” come metà della durata media della vita.

Se ricerchiamo un’interpretazione sottile, ci accorgiamo che Dante non afferma “a metà” del percorso della vita, non definisce una durata temporale. Con “mezzo” è probabile intendere “al centro della mente”.

Sappiamo che che quando siamo centrati i nostri due lobi cerebrali sono in equilibrio e possiamo esprimerci in forma perfetta oltre ad avere delle visioni verso altre dimensioni.

Per questo il seguito del poema assume un significato illuminante.

“mi ritrovai per una selva oscura”

Ovvero: mentre ero centrato, in meditazione, mi ritrovai sulla soglia dei mondi sottili e in presenza delle mie paure.

Sappiamo, infatti, che al primo varco dei mondi sottili incontriamo quasi sempre un guardiano (della soglia), che rappresenta tutte le nostre paure che si manifestano nel corpo astrale.

I primi 3 simboli

Nel Canto I dell’Inferno, Dante menziona tre simboli: una lonza, un leone e una lupa.

“Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
una lonza leggiera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;”

La lonza, rappresentante presumibilmente un felino, una pantera o un leopardo, rappresenta l’astuzia, ovvero la capacità di prendere decisioni particolari, come fece Ulisse lungo il suo viaggio.

“ma non sì che paura non mi desse
la vista che m’apparve d’un leone.
Questi parea che contra me venisse
con la test’alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne tremesse.”

Il leone rappresenta il coraggio, degenerato in avidità di dominio.

“Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame”

La lupa rappresenta il possesso, la cupidigia, la proprietà personale e corrisponde alla lupa che allattò Romolo e Remo. Guarda caso, il diritto romano sorse proprio con la nascita di Roma, con quel popolo, in quella città e in quel periodo di sviluppo delle coscienze.

La simbologia che ritorna

La Divina Commedia, come è ben noto, è divisa in tre grandi “sfere”, denominate Inferno, Purgatorio e Paradiso.

Tale visione deriva dalla concezione Agostiniana del post mortem: la non accettazione della reincarnazione e del karma.

Agostino afferma che una parte degli uomini è destinata al bene e una parte al male, mentre l’altra concezione plausibile afferma che l’essere umano si evolve per mezzo di ripetute incarnazioni.
Agostino si riferisce solo alla personalità dell’uomo (bene o male) e in funzione del comportamento tenuto su questa terra egli subirà un destino eterno nell’altro mondo.

Anche il concetto che questo mondo è una “valle di lacrime” nasce dalla visione di una sola vita possibile su questa terra.

È interessante la visione di Dante quando visita la città di Dite, ove giacciono i seguaci di Epicuro, coloro che avevano proclamato la mortalità dell’anima (Inferno, Canto X).

“Suo cimitero da questa parte hanno
con Epicuro tutti suoi seguaci,
che l’anima col corpo morta fanno.”

Queste anime si trovano in sepolcri o tombe. L’accostamento alla nostra realtà attuale è perfetto: i materialisti sono morti viventi.

L’interpretazione misterica della Divina Commedia

Abbiamo analizzato solo pochi versi e abbiamo visto come sia possibile una interpretazione completamente differente dell’opera dantesca, che ci consente una visione globale di cosa si celi nei mondi sottili.

Consideriamo ora il terzo verso del Canto I dell’Inferno, a conclusione dell’incipit più famoso:

“che la diritta via era smarrita”

Qui Dante non intende dire che era traviato dalle passioni, ma che la classica via, quella materiale e fisica, quella più semplice e naturale, “la via diritta, senza sforzo”, sembrava scomparsa e si parava innanzi una via completamente differente che richiedeva un lavoro maggiore per essere compresa.

All’epoca di Dante non vigeva la concezione Copernicana, ma prevaleva l’ipotesi secondo cui il pianeta Terra si trovasse al centro del nostro sistema e che il Sole vi girasse attorno. Questo potrebbe portare qualcuno a considerare la “visione” di Dante frutto di fantasie dettate da concezioni errate e non corrispondenti al vero stato delle cose.

Ma per immergerci nell’interpretazione misterica e ricercare tutti i risvolti sottili ivi contenuti, dobbiamo separare il metodo di interpretazione letterale di quanto contenuto nel poema.

La poesia mistico-allegorica in Dante

Dante ha realizzato diverse opere e tutte sono pervase da una poesia mistico-allegorica.

Per esempio, in molte poesie si parla di donne, di amore e di bellezza.

Beatrice, forse la più famosa, viene raffigurata come una dama sapientissima e intelligentissima, tanto che a una lettura misterica può venir paragonata alla Sapienza.

Nel 1922, Luigi Valli, scrittore e studioso, redasse un cifrario contenuto in “Il segreto della Croce e dell’Aquila nella Divina Commedia”, arricchito nel 1928 con il testo “Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d’Amore”. Grazie alle osservazioni di Valli possiamo interpretare le frasi e gli scritti che ci sono pervenuti.

Vediamone alcuni insieme:

  • Amore: amore per la Sapienza (che legava gli adepti).
  • Madonna: Sapienza santa o intelligenza degli aristotelici.
  • Morte: morte mistica, morte dell’uomo inferiore, morte dell’errore e della Chiesa corrotta.
  • Morte di Madonna: setta costretta a nascondersi, morte mistica.
  • Donne: gli adepti, i Fedeli d’Amore.
  • Piangere: simulare fedeltà alla Chiesa.

Sostituendo i termini convenzionali nelle opere del periodo con il significato misterico esse tramutano da poesie monotone od oscure a scritti completi di senso logico.

Un ultimo esempio

Ecco che risulta irrilevante la teoria Copernicana o Galileiana, il poema rimane un’opera, probabilmente la più grande, in magnificenza ed espressione di cultura e poesia, la visione di un iniziato che ha segnato la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova e molto probabilmente l’appartenenza di Dante stesso all’Ordine dei Templari, ordine fondato nel 1109.

È significativo che Dante condanni il papa Clemente V per ben sei volte nell’opera. Clemente V fu eletto pontefice dal re Filippo il Bello, re di Francia, e dopo lo spostamento della sede papale ad Avignone iniziò pure la persecuzione contro i templari (1310-1314).

Quel “sei volte” di condanna viene riferito alle sei infami promesse che Clemente V (arcivescovo Bertrand de Got) fece a Filippo il Bello per farsi eleggere, compresa quella per la soppressione dell’Ordine dei Templari.

Bellissimo il termine usato da Dante nei confronti del suddetto papa: “… un pastor sanza legge …”, tanto che fa dire a San Pietro nel XXVII canto del Paradiso:

“Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio,
il luogo mio, il luogo mio che vaca ne la presenza del Figliol di Dio,
fatt’ha del cimitero mio cloaca del sangue e de la puzza”
(Par. XXVII, 22-26)

La Divina Commedia nel nostro tempo

Una riflessione sorge spontanea rapportando gli eventi del nostro tempo presente, il 2021, alle parole di Dante.

Quanti usurpatori di Verità ci ritroviamo al comando in questo periodo, quanti “pastor sanza legge” amanti del potere stanno gestendo un gregge involvo? Tranquillizziamoci sapendo che la Verità verrà sempre alla Luce.

Rudolf Steiner afferma che in Dante esisteva “uno Spirito che ebbe ancora la possibilità di sperimentare realmente in modo naturale gli ultimi residui di un rapporto diretto coi mondi spirituali”.

Altri maestri incaricati di questo furono Brunetto Latini (maestro di Dante), Pico della Mirandola e Paracelso. All’epoca di Dante le immagini spirituali e gli esseri terreni non erano discosti come nell’epoca attuale, specialmente per i maestri illuminati.

Quando abbiamo parlato del viaggio di Ulisse (clicca qui se non hai letto l’articolo) abbiamo notato il linguaggio misterico del poema. Pensiamo, per esempio, alla Sapienza – “Sofia”, la troviamo nelle poetiche dei Sufi persiani e addirittura nel Cantico dei Cantici. C’è sempre una figura di donna (la Sapienza) amata da un giovane (l’anima del discepolo) che spesso utilizza il termine “sposa”.

Dante ebbe un’immensa formazione culturale ed è significativo che egli stesso riporti come viene accolto da parte dei cinque massimi poeti antichi (Virgilio, Ovidio, Orazio, Lucano, Stazio) mentre arriva al Limbo.
Questi poeti lo rendono loro pari: “ed io fui sesto fra cotanto senno”.

Fondamentale, tuttavia, rimane per Dante l’insegnamento percepito dagli studi delle opere di Virgilio, colui che lo accompagnerà per buona parte del poema.

Virgilio è “quel savio gentil che tutto seppe” a conferma dell’immensa stima che il poeta per lui nutriva, senza dimenticare l’erudizione ottenuta attraverso gli studi Aristotelici e di Tommaso d’Aquino.

Cosa ci dice Dante

Quando si scorrono opere come la Divina Commedia in epoche come la nostra, viene spontaneo chiedersi: e se Dante potesse parlare direttamente, magari tramite un mezzo di comunicazione di massa non asservito ai poteri forti, cosa direbbe agli italiani e al resto del mondo?

A seguito della lettura degli scritti lasciatici dal sommo poeta, non possiamo che immaginare un discorso forte e potente, ricco di richiami alla Natura umana e alla Spiritualità.

Lo stesso Dante afferma “Nos autem, cui mundus est patria, velut piscibus equor”, ovvero “Noi, che abbiamo il mondo per patria, come i pesci il mare”.

Sicuramente ci farebbe notare quanto espresso in questi versi (Purgatorio III, 79-84):
Come le pecorelle escon del chiuso
a una, a due, a tre, e l’altre stanno
timidette atterrando l’occhio e ‘l muso;
e ciò che fa la prima, e l’altre fanno,
addossandosi a lei, s’ella s’arresta,
semplici e quete, e lo ‘mperché non sanno

Molto probabilmente ci indicherebbe la via da seguire, proprio lui che fu esiliato dalla sua Firenze e non smise mai di lottare per la giustizia e la libertà, un vero Lupo e non una pecorella che “non sa cosa fare”.