Passeggiare in città, certo, ma in questo libro si parla proprio del camminare attraverso il mondo.
Partire da casa e incamminarsi. Attraversare pianure e montagne, assorbire il loro potente silenzio e ritrovare sé stessi.
Si tratta di argomenti molto interessanti e ti ricordiamo che trovi altri due libri su questo tema tra le Letture Utili:
– Camminare, un gesto sovversivo di Erling Kagge
– Earthing, camminare a piedi nudi di Clinton Ober, Stephen T. Sinatra e Martin Zucker
Mario Rigoni Stern
Questo stiramento del tempo approfondisce anche lo spazio. È uno dei segreti del camminare: un lento avvicinamento ai paesaggi che li rende familiari poco alla volta.
E così, mentre di solito si vive dentro, e si esce fuori per andare in un altro “dentro”, vivendo lo spazio esterno come un corridoio, un tunnel di passaggio da un interno a un altro (da casa al negozio, all’ufficio, ecc.), l’autore ci permette di percepire l’esterno come tale.
Vivere il fuori.
Cogliere i suoi aspetti di presenza e immutabilità, gli unici forse che potranno permetterci di ricordare l’infinito che è in noi.
Ogni capitolo della sua esperienza personale è alternato a un capitolo che racconta di altri grandi camminatori del passato, ogni capitolo si sviluppa nella vita di un personaggio, la esplora, la approfondisce.
E quindi impariamo di Gandhi o Wordsworth, Rousseau e Thoreau, e molti altri che nel camminare trovarono ispirazione o forza, pace o ragione di vivere.
Tutto questo, unito al fatto che un filosofo non può che scrivere in modo magistrale: questo libro è da leggere anche solo per il piacere di una lettura eccellente, così rara ormai.
Bisognerà pure, un giorno, fare a meno delle «nuove».
La lettura dei giornali, infatti, ci mette al corrente soltanto di quello che ancora non sapevamo.
D’altronde è proprio quello che cerchiamo: delle novità.
Ma ciò che non sapevamo è per l’appunto ciò che si dimentica subito. Difatti, una volta che si sa, bisognerà lasciare posto a ciò che non si sa ancora e che verrà domani.
I giornali non hanno memoria: una «nuova» scaccia l’altra, ogni avvenimento ne sostituisce un altro, che sparisce senza lasciare traccia. Le dicerie si propagano, poi bruscamente si sgonfiano. I «si dice» si succedono, cascata informe e perpetua.
Non appena ci si mette in cammino, le notizie non hanno più importanza.
Prendiamo una di quelle lunghe escursioni che si protraggono per più giorni o più settimane. Dopo poco non si sa più niente del mondo e dei suoi sussulti, degli ultimi sviluppi dell’ultimo caso. Non ci si aspetta più il capovolgimento, né ci interessa sapere com’è cominciata o com’è andata a finire, “La sapete l’ultima?”.
Non appena si va a spasso, però, tutto questo non ha più importanza. Trovarsi di fronte a ciò che assolutamente dura ci stacca da quelle notizie effimere che di solito ci schiavizzano. È incredibile come, camminando a lungo e spingendosi lontano, uno arrivi a domandarsi come poteva trovare interessanti certi fatti.
In confronto al lento respiro delle cose, l’ansimare quotidiano pare un’agitazione vana e morbosa.
La prima eternità che si incontra è quella delle pietre, del movimento delle pianure, delle linee d’orizzonte: tutto ciò che resiste.
E trovarsi di fronte a quella solidità che ci sovrasta fa apparire i fatti di cronaca, le povere notizie, come granelli di polvere spinti dal vento.
È un’eternità immobile, che vibra da ferma. Camminare significa sperimentare quelle realtà che persistono, senza far rumore, umilmente – l’albero nato in mezzo ai sassi, l’uccello che fa la posta, il ruscello che trova il suo corso – senza aspettarsi niente.
Camminare fa tacere di colpo dicerie e lagnanze, mette fine all’interminabile chiacchiericcio interiore con il quale senza posa giudichiamo gli altri, valutiamo noi stessi, ricomponiamo, interpretiamo.
Camminare mette fine all’infinito soliloquio in cui riemergono i rancori aspri, le soddisfazioni idiote, le vendite facili.
Sono davanti a questa montagna, cammino in mezzo a grandi alberi e penso: loro sono qui.
Sono qui, non hanno aspettato me, sono qui da sempre.
Mi hanno preceduto da un’eternità, continueranno molto dopo di me.
Arriverà pure un giorno in cui si smetterà anche di essere preoccupati, assorbiti dai nostri compiti, loro prigionieri… sapendo che molti di essi, siamo noi stessi a inventarli, noi a imporli.
Lavorare: accumulare risparmi, tenere sempre gli occhi aperti per non perdere la minima occasione di far carriera, di arrivare a quella carica, di finire in fretta, di preoccuparsi degli altri.
Fare questo, andare a trovare quello, invitare il tale: costrizioni sociali, mode culturali, armeggi… sempre a fare qualcosa, ma essere?
Si lascia per dopo: c’è sempre di meglio, sempre qualcosa di più urgente, di più importante da fare.
Si rimanda a domani. Ma domani porta con sé i compiti di dopodomani. Tunnel senza fine. E lo chiamano vivere.
È talmente pregnante che anche i momenti di relax dovranno recare il segno di quella ostinazione: sport a oltranza, distrazioni stressanti, serate costose, notti impegnative, vacanze onerose.
Tanto che alla fine, come esito, resta soltanto la malinconia o la morte.
Ma non aver altro da fare che camminare permette di ritrovare il puro sentimento di essere, di riscoprire la semplice gioia di esistere, quella che domina tutta l’infanzia.
[….]
Meravigliarsi della luce che c’è, dello splendore del sole, dell’altezza degli alberi, dell’azzurro del cielo. Non ho bisogno per questo di alcuna esperienza, di alcuna competenza.
[….]
Camminare interminabilmente, far passare per i pori l’altezza delle montagne quando ci stanno davanti per molto tempo, respirare per ore la forma delle colline scalandole a lungo.
Il corpo diventa un impasto della terra che calpesta.
E pian piano, così, esso non è più nel paesaggio: esso è il paesaggio.
Perché in lui d’improvviso quel rapporto s’illumina.
È come un’istante che esplode. Fuoco improvviso: il tempo s’infiamma.
Allora il sentimento di eternità è di colpo quella vibrazione delle presenze. L’eternità, qui, come scintilla.
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